a cura di:
Laboratorio di Sostenibilità ed Economia Circolare
Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo
Photo di Chris Ensminger su Unsplash
Quanto mettiamo in tavola determina variazioni sul termometro del Pianeta. Il nostro piatto influisce sul clima e ne è a sua volta influenzato, in un rapporto di interconnesso dualismo. Proviamo a comprendere questa mutuale influenza analizzando alcuni fronti di accavallamento.
Indice
Emissioni. dal campo al piatto
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Emissioni, dal campo al piatto
Il cibo prima di arrivare sulle nostre tavole deve essere coltivato, raccolto, allevato, trasportato, lavorato, confezionato, distribuito e cucinato. Anche i residui alimentari, seppur correttamente smaltiti, contribuiscono alla generazione di emissioni climalteranti. Un altro elemento non trascurabile è l'energia necessaria per tutti questi processi, la quale deve essere prodotta e resa disponibile. La filiera agroalimentare consuma il 30% dell'energia disponibile a livello mondiale con oltre il 70% consumato oltre i confini dell'azienda agricola (Gao et al., 2017).
Così facendo la produzione di cibo ed in particolar modo quella esclusivamente basata sui combustibili fossili, contribuisce ad aumentare l’impatto delle attività umane sul Pianeta. L’agricoltura è una delle vittime del cambiamento climatico, ma ne è al contempo una degli artefici, contribuendo per ⅓ sul totale, alla generazione delle emissioni di gas climalteranti rilasciate in atmosfera. Queste emissioni sono riconducibili in primis alle dinamiche produttive. È quello che emerge dal recente report “Edgar Food. A global emission database of food systems” (European Commission, 2021), in cui si può leggere come l’utilizzo intensivo del suolo e la sua generalizzata perdita di vitalità incidano sulla generazione di CO2 per circa un 32%, i metodi agricoli per un 40% (Crippa et al., 2021), il trasporto intorno al 5% così come il packaging, mentre il cibo sprecato circa il 9%.
Rappresentazione delle principali fasi in cui il food system contribuisce alla generazione di gas climalteranti.
Fonte immagine: EDGAR - Emissions Database for Global At (https://edgar.jrc.ec.europa.eu/edgar_food)
In generale, possiamo purtroppo constatare come le concentrazioni di CO2 associate alla produzione di cibo, siano aumentate del 145% rispetto ai livelli preindustriali (prima del 1750). Ovviamente il tutto cambia da filiera a filiera (vedi tabella “Cibo: emissioni di gas serra lungo la filiera produttiva”) ma, pur se il riscaldamento globale è principalmente causato dalle emissioni legate alla produzione di energia, è evidente che le attività agricole, gli allevamenti e le filiere alimentari possono fornire un contributo importante alla riduzione delle emissioni climalteranti e al controllo della deforestazione.
Dal manzo alla frutta secca: fasi e quantità in cui si genera CO2
Fonte immagine: Hannas Ritchie
Fonte dati: Poore and Nemecek (2019)
Spesso infatti, la terra coltivata è concepita come risorsa non viva, un substrato da cospargere di fertilizzanti, erbicidi, insetticidi, etc. per aumentare la resa del campo, non considerando la necessità di preservarne la capacità rigenerativa e la biodiversità che la caratterizza. L’agricoltura industriale sembra così non finalizzata al mantenimento della fertilità chimico-fisica e microbiologica del terreno situazione che porta a lungo andare, alla sterilità dello stesso.
Adottando principalmente questa mentalità, che oggi definiremmo “economia lineare”, il settore agroindustriale ha contribuito al superamento di 4 delle 9 soglie che determinano i limiti planetari (cambiamento climatico, perdita di biodiversità, alterazioni al ciclo dell’azoto e del fosforo, cambiamenti nell’utilizzo del suolo)[1] ossia di quei valori entro i quali l’umanità deve muoversi per mantenere uno stato di equilibrio dei sistemi biofisici che ne supportano la sua esistenza (Rockstrom, et al., 2009). Alle necessità produttive dell’umanità, deve quindi corrispondere il senso del limite dell’uomo nell’usufruire di ciò che gli ecosistemi gli mettono a disposizione. La priorità è quella di rallentare gli eccessi estrattivi dell’attuale modello produttivo per gestire un rapporto di equilibrio dinamico con “il miglior fornitore di materia prima che il genere umano conosca” (Lovins et al., 1999) ovvero la Natura. Uno dei principali rischi che sta correndo la società umana, nel breve e lungo periodo, è di incorrere in una perdita di efficienza nell’uso delle risorse come conseguenza della mancanza di comprensione delle reali esigenze di tutte le parti coinvolte nel sistema (Gibbons, 1992). Una gestione corretta del terreno potrebbe ad esempio, attivare un processo chiamato “sequestro del carbonio nel suolo” il quale contribuirebbe all’immagazzinamento del carbonio all’interno del suolo stesso, anziché rilasciarlo (Le Scienze, 2021).
Dalla gestione delle risorse al consumatore finale vi sono poi altre situazioni dall’impatto rilevante. Ad esempio, consumare il cibo in luoghi lontani da quelli in cui la produzione è avvenuta fa sì che si abbia bisogno di mezzi di trasporto (camion, navi, aerei, treni) il più delle volte con tecnologie di refrigerazione (consumo energia) per la conservazione del prodotto. Più si allunga la filiera, più registreremo un aumento dei gas climalteranti in atmosfera a causa della logistica delle merci. A questo proposito, si stima che il cibo consumato da una famiglia media americana emetta circa 8 tonnellate di CO2 per anno. In questa cifra, il trasporto conta per il 5% (Joseph Poore et al, 2018). Ciò significa che se una famiglia acquistasse esclusivamente prodotti locali sarebbe in grado di ridurre le proprie emissioni perlomeno della medesima percentuale.
Un altro aspetto di cui tenere conto quando si parla di impatto ambientale del cibo è quello legato allo spreco alimentare. Visto che la produzione di alimenti consiste nell’utilizzo di una gran quantità di acqua, suolo ed energia, è facile intuire come il cibo sprecato abbia un impatto notevole sul cambiamento climatico, arrivando a rappresentare l’8%-10% delle emissioni di gas serra totali (WWF, 2021).
I dati anche in questo caso sono abbastanza allarmanti. Secondo le stime di UNEP (2021) - United Nations Environment Programme - il 17% della produzione globale di cibo potrebbe venire sprecato, considerando che nel 2019 sono stati generati circa 931 milioni di tonnellate di rifiuti alimentari, il 61% dei quali proviene dagli ambienti domestici, il 26% dalla ristorazione e il 13% dalla vendita al dettaglio.
In conclusione, il 5° rapporto “Climate Change” (2021) dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, ci racconta di come l’influenza umana abbia ormai drasticamente riscaldato l’atmosfera, l’oceano e le terre emerse.
Sono aumentati (per citare solo alcune delle considerazioni contenute nel rapporto):
- le concentrazioni di gas serra;
- la temperatura superficiale media globale sia sulla terraferma (1,59°C) che dell’oceano (0,88°C);
- le precipitazioni globali medie;
- il ritiro dei ghiacciai (che è pari a circa il 40% rispetto agli inizi degli anni Settanta);
- l’acidificazione globale degli oceani;
- il livello medio del mare globale (che dal 2006 cresce di circa 3,7 mm per anno).
Le zone climatiche si stanno spostando verso il polo in entrambi gli emisferi, determinando di conseguenza un cambiamento nelle condizioni termiche delle zone coltivate, il che vuol dire per esempio, che il 50° nord parallelo che è lo storico limite della viticoltura in realtà non lo è più a causa del riscaldamento globale, in quanto tale aumento della temperatura sta spingendo la coltivazione della vite in regioni sempre più a nord e sempre più in altura.
C’è chi parla di fenomeno tipico del pianeta Terra, che passa per sua natura tra periodi glaciali e interglaciali, ma la verità è che nel 2019 le concentrazioni atmosferiche di CO2 (anidride carbonica) erano le più alte degli ultimi 2 milioni di anni mentre le concentrazioni di CH4 (Metano) e N2O (protossido di azoto) erano le più alte degli ultimi 800.000 anni ed entrambe superavano di gran lunga i cambiamenti naturali plurimillenari tra periodi glaciali e interglaciali degli ultimi 800.000 anni.
La scomposizione del food system in tutte le fasi in cui si potrebbe calcolare una generazione puntuale di gas climalteranti.
Fonte immagine: EDGAR - Emissions Database for Global At (https://edgar.jrc.ec.europa.eu/edgar_food)
Cambiamento climatico e conseguenze sulla tavola
Secondo il Copernicus Climate Change Service, globalmente la temperatura media è aumentata di 0,26 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali, ma in Italia il termometro segna già 1,5 gradi in più, con vette addirittura di +2 gradi sulle Alpi. Sono così cambiati i pattern atmosferici legati alla stagionalità, ovvero gli schemi di circolazione atmosferici o reti di interconnessione che contribuiscono a definire il comportamento del clima. Insomma, quando si dice “non esistono più le mezze stagioni" non ci stiamo riempiendo la bocca di parole vuote e luoghi comuni, ma stiamo descrivendo la situazione attuale. Cosa vuol dire tutto ciò per il cibo che mangiamo? Vediamo alcuni aspetti su scala nazionale.
Facciamo un esempio parlando di acqua. La scelta di un metodo di irrigazione piuttosto che un altro dipende da diversi fattori, quali la disponibilità idrica, la morfologia e la giacitura del terreno, il clima, la posizione della fonte di approvvigionamento idrico, etc. L’acqua utilizzata nelle risaie della Pianura Padana, ad esempio, proviene dal Po e dalla Dora Baltea ed è sempre stato così, fin dai tempi di Ludovico il Moro (Duca di Milano dal 1480 al 1499). Se la temperatura si alza, in particolar modo d’estate, o non piove abbastanza tra febbraio e marzo (come sta peraltro avvenendo negli ultimi anni a questa parte), registriamo una diminuzione del volume dei ghiacciai (IPCC, 2013). Di conseguenza, aggiungendo una diminuzione delle precipitazioni e un aumento delle ondate di calore (IPCC, 2013), la portata dei nostri fiumi si riduce, mettendo a serio rischio il lavoro dei produttori di riso italiani. L’impatto dei cambiamenti climatici potrebbe portare a una progressiva diffusione di sistemi irrigui anche in aree dove prima non erano presenti o necessari.
Calore e siccità, poi, stanno affrettando la maturazione degli alberi da frutto. Un esempio sono le allarmanti notizie che ci arrivano dalla viticoltura, dove le temperature più calde stanno costringendo le aziende ad anticipare la vendemmia. In media parliamo di 10 giorni, con punte di 2 settimane per i produttori maggiormente colpiti. Questo genera effetti anche sul prodotto finale: una più elevata concentrazione di zuccheri negli acini farà sì che i vini saranno più alcolici. Aumenta il caldo ed inoltre aumenta la proliferazione di nuovi parassiti, portati in giro per il mondo con il favore della globalizzazione dei mercati. Ad esempio, la Popillia Japonica (uno scarabeo originario del Giappone), arrivata in Italia nel 2014, devasta i raccolti e attacca piante spontanee, ornamentali e forestali, determinando defogliazioni e distruzione della pianta e dei fiori (Regione Emilia Romagna, 2021). Ad aggiungersi a queste problematiche portate da specie aliene, c’è la tropicalizzazione ovvero la modifica del clima delle aree temperate, le quali tendono ad assumere caratteristiche dei climi della fascia intertropicale. Tale situazione favorisce la formazione di pseudo-cicloni, cioè precipitazioni torrenziali che comunemente chiamiamo “bombe d’acqua”. La violenza e l’imprevedibilità di questi fenomeni mette a repentaglio i raccolti, in particolar modo quando si aggiungono le improvvise gelate dei mesi primaverili. Quando le lunghe nottate con la colonnina di mercurio sotto lo zero arrivano dopo giornate di clima da anticipo d’estate, la ripetitiva alternanza climatica è capace di annientare in pochi minuti raccolti e redditi di molte attività del settore agricolo. Secondo i dati dell’Arpa, tra il 6 e il 7 aprile 2021 abbiamo registrato un grande freddo, con un tracollo termico di 15 °C, rovesci nevosi fino a 300-500 metri dal Nord all'Appennino meridionale e perfino fiocchi fin sul mare a Trieste. Temperature così basse nel mese di aprile non si vedevano da 20-30 anni o più (minime di -9 °C nell'Aretino, -6 °C a Perugia, -5 °C a Verona), battendo in varie località i record dell'8 aprile 2003. Questo gelo improvviso comporta gravi danni a colture agrarie e frutteti, risvegliati precocemente dal caldo esagerato di fine marzo-inizio aprile (Nimbus, 2021).
Secondo il Gruppo Intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (IPCC) - l’organismo scientifico mondiale dedicato allo studio dei cambiamenti climatici - l’adozione di pratiche agronomiche più sostenibili potrebbe ridurre le emissioni responsabili del riscaldamento globale a 5,5-6 miliardi di tonnellate entro il 2030 (Ismea, 2014). Molto può essere fatto attraverso il sequestro di carbonio nel suolo, il contenimento del metano nella zootecnia e nelle risaie e la riduzione delle emissioni di N2O (protossido di azoto) nei seminativi.
Come possiamo contribuire a ridurre il nostro impatto sul clima?
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