Nel 2012 l’editore Laterza ha pubblicato un volume di Emanuela Scarpellini dal titolo “A TAVOLA! Gli italiani in 7 pranzi”, la cui lettura è molto utile per inquadrare e comprendere il tema dello spreco alimentare.
Oltre all’analisi puntuale dei consumi alimentari degli italiani dalla fine del 1800 ai giorni nostri, l’autrice descrive 7 pasti tipici di altrettanti periodi e di diverse classi sociali: un pasto della nobiltà negli anni della costruzione dello stato unitario, un pasto contadino nel territorio cuneese alla fine del 1800, una cena operaia negli anni che precedono la prima guerra mondiale, un pranzo durante l’autarchia fascista, un pasto operaio nella Torino del boom economico, un pranzo di piccoli imprenditori negli affluenti anni 70-80 del ‘900 nel ricco territorio del Nord-Est ed un pasto di una piccola famiglia di lavoratori intellettuali all’inizio degli anni ’90, quando alcune tendenze di consumo che tuttora riguardano il cibo –localismo, naturalità, tradizione, salutismo- hanno incominciato a prendere corpo. Infine si prospettano due scenari diversi per i pranzi del futuro, uno orientato al prevalere della tecnologia e della chimica e l’altro all’affermazione della tradizione e della tipicità e stagionalità dei cibi.
Chi volesse scorrere il volume soffermandosi sulla descrizione dei 7 pasti noterebbe alcuni aspetti che appaiono rilevanti per discutere di spreco alimentare.
Il primo aspetto è quello del progressivo aumento della quantità di cibo consumato nei pasti, fino ad arrivare al picco del periodo del boom economico per ridursi negli anni successivi a favore della crescita di attenzione per la loro qualità.
Il secondo aspetto è quello della crescita quantitativa delle dispense, che esonerano dalla necessità della spesa quotidiana e che offrono diverse opzioni di scelta rispetto al consumo di cibo.
Infine, il terzo è quello del passaggio da una dieta quasi esclusivamente vegetariana ad una dieta proteica e ricca di latte e derivati, di carne e di pesce.
In sintesi ci si trova di fronte ad un percorso verso l’abbondanza: abbondanza in termini quantitativi del cibo, abbondanza di principi nutritivi, abbondanza di scelte alimentari a disposizione.
Proprio questo termine, abbondanza, rappresenta una delle principali chiavi di lettura dello spreco alimentare nel senso che lo spreco rappresenta una sorta di ricaduta necessaria dell’abbondanza di cibo: ricercare ed ottenere l’abbondanza, così come è avvenuto per gli italiani nel corso dello sviluppo economico del Paese, implica e “contiene” lo spreco il quale, invece, risulta ridotto laddove vi è sobrietà o scarsità.
A sostenere il binomio abbondanza/spreco hanno concorso alcuni fenomeni di natura economica, sociale e culturale.
Il primo è quello della crescita industriale che si è accompagnata al processo di urbanizzazione: negli anni del boom economico l’abbandono delle campagne e la ricerca di un salario industriale garantito e crescente in città ha favorito l’insorgenza di un modello di consumo orientato al superamento del localismo e dell’orizzonte comunitario a favore di una “cittadinanza” al nuovo mondo industriale ed ad una società più ampia che raggruppa i Paesi più avanzati sulla base della condivisione di beni simili e costitutivi di uno stesso stile di vita.
L’affermazione di un modello di consumo fondato sulla cittadinanza, ovvero sull’appartenenza alla società industriale, di cui la società statunitense offriva l’esempio più desiderabile, favorì un processo di omogeneizzazione, in termini di stili di vita e di valori, della popolazione italiana, diffondendo uno stereotipo affermato di desiderabilità sociale coincidente con la città, con l’industria e con i loro beni.
La città industriale offriva la possibilità di realizzare esigenze nuove della popolazione, esigenze cui i contesti tradizionali non potevano far fronte. Così, si realizzò un processo di socializzazione anticipata nei confronti della società urbana-industriale, i cui contesti e le cui forme di vita erano più desiderabili non solo per gli immigrati ma anche per coloro che stavano per spostarsi e per coloro che rimanevano nel Sud o nelle campagne, il che favorì una rapida dissoluzione delle forme di vita e dei modelli culturali tradizionali.
Nel campo dell’alimentazione la trasformazione della dieta appare impressionante: dalla scarsità e dalla ridotta varietà dei cibi si passa ad un regime ricco, proteico e diversificato (nel 1968 viene superata la soglia media delle 3000 calorie giornaliere) i cui simboli sono la carne e lo zucchero, pressochè assenti dall’alimentazione contadina tradizionale e confinati soltanto ai giorni di festa.
Negli anni dello sviluppo le spese alimentari che crescono maggiormente sono quelle relative ai prodotti industriali che contengono il prezzo ma sanno anche rispondere ai cambiamenti sociali e culturali: non soltanto all’abbandono, fisico e culturale delle campagne, ma anche all’accresciuta presenza delle donne nel mercato del lavoro. I “prodotti intermedi” come i dadi, le passate di pomodoro, i preparati per dolci, i surgelati, insieme ai prodotti pronti per il consumo come i cibi in scatola o le salse, sono di aiuto alle donne moderne che hanno meno tempo da dedicare alla cucina e meno memoria e conoscenza delle preparazioni tradizionali.
Il cambiamento progressivo del ruolo femminile rappresenta il secondo fenomeno rilevante alla base del binomio abbondanza/spreco. L’aumento del lavoro femminile extradomestico rende necessaria la riduzione dell’insieme del lavoro domestico, all’interno del quale si colloca il lavoro di consumo. Ridurre la frequenza della spesa, riempire la dispensa, utilizzare prodotti alimentari intermedi o cibi pronti, cucinare in grandi quantità, rappresentano quasi un obbligo per le donne a doppia carriera e contribuiscono a sollevarle dal peso dei tanti e diversi compiti domestici da svolgere.
Infine, il terzo fenomeno è di natura culturale e riguarda l’aspetto simbolico del cibo e della ricerca dell’abbondanza.
L’abbondanza è ostentazione dello status, come insegna Veblen a proposito dei consumi vistosi della classe agiata; è accoglienza e socialità, favorisce la convivialità, è riconoscimento dello status dell’altro e, infine, è trasgressione rispetto alla quotidianità di penuria e di povertà, come mostrano gli studi sulle feste contadine tradizionali.

Al periodo dello sviluppo economico e della ricerca dell’abbondanza conquistata da larghi strati della popolazione seguono gli anni della società postfordista in cui si afferma l’economia della varietà caratterizzata da una amplissima offerta di beni declinati in una elevata gamma. Dal punto di vista del consumatore, l’economia della varietà offre una libertà di scelta, vera o illusoria che sia, senza precedenti.
Anche questa libertà presuppone l’abbondanza e le sue ricadute in termini di spreco. L’appagamento dei desideri e l’incessante nuova loro insorgenza presuppone una disponibilità di beni, che devono essere presenti e consumabili hic et nunc. L’apertura del frigorifero o della dispensa e l’accesso immediato a cibi diversi, freschi o conservati, cucinati e non, rappresenta un esempio di come l’appagamento del desiderio momentaneo necessiti di abbondanza e come, ovviamente, l’abbondanza disponibile, possa facilmente generare spreco.
La crisi economica e sociale che il nostro Paese sta attraversando ha in parte messo in discussione le modalità di consumo connesse all’economia della varietà sulla base di due motivi: quello economico e quello valoriale.
Da un canto le risorse economiche ridotte hanno spinto una parte della popolazione a rinunciare all’abbondanza ed a prestare maggiore attenzione allo spreco; dall’altro nuovi valori, quali la sostenibilità, l’etica del consumo, la sobrietà, hanno coinvolto l’ambito del consumo, tanto che alcuni studiosi hanno ipotizzato un cambiamento irreversibile del modello di consumo nella direzione di quella che è stata definita come “postcrescita”, intendendo con questo termine l’abbandono degli stili di vita consumistici degli anni dello sviluppo e di quelli seguenti.
Secondo Fabris, lo spreco come disvalore rappresenta una delle dimensioni della postcrescita, insieme alla sostenibilità ambientale, al consumo etico e all’abbandono della logica del possesso a favore di quella dell’accesso.
L’indagine Knowledge for Expo-Last Minute Market citata in precedenza conferma alcuni dei cambiamenti postulati dal modello della postcrescita. Mentre cresce la sensibilità ambientale, anche la questione dello spreco alimentare appare più rilevante per la popolazione: il 90% degli italiani considera molto o abbastanza grave lo spreco, quasi l’80% si dichiara preoccupato per questo e quasi il 90% mostra il desiderio di maggiori informazioni sia sulle conseguenze dello spreco sia sulle modalità per ridurlo.
Anche i comportamenti paiono in trasformazione: quasi il 60% degli italiani sostiene di non gettare quasi mai gli avanzi e molti li riutilizzano in qualche modo.
I dati nazionali mostrano dunque una crescita della sensibilità dei consumatori ed un generale interesse ai temi dello spreco: certamente, il passaggio dagli atteggiamenti ai comportamenti è più difficile e trova un freno sia nei modelli di consumo più diffusi e ritenuti desiderabili sia nelle abitudini quotidiane consolidate.
Un’ultima riflessione riguarda appunto gli ostacoli che paiono particolarmente rilevanti alla diffusione di comportamenti più sobri e consapevoli.
Il primo potrebbe essere definito come la negoziazione tra libertà e dovere; si è detto come l’economia della varietà favorisca la libertà -vera o illusoria che sia, come si è sottolineato- del consumatore, che può scegliere in ogni momento come soddisfare i suoi desideri. Seguire il dovere etico del rispetto del cibo e, con esso, dell’ambiente e delle persone a livello globale, limita oggettivamente tale libertà.
Un buon esempio di questa limitazione risulta dalla stessa indagine Knowlwdge for Expo- Last Minute Market che mette in evidenza come uno stile di vita attivo e proteso al di fuori delle pareti domestiche incentivi lo spreco: andare spesso a pranzo o a cena fuori seguendo il desiderio del momento o le dinamiche della vita sociale, fa sì che le scorte domestiche di alimenti si intacchino diversamente rispetto alla programmazione prevista e che si possano determinare deperimenti o non edibilità di molti cibi. Sprecare meno significa, in questo caso, rinunciare a ciò che si desidera in nome di un principio etico e svolgere il lavoro di consumo richiesto per consumare i cibi acquistati. Per questo è stato usato il termine “negoziazione”: si tratta di negoziare con se stessi decidendo che cosa è più importante: il desiderio personale oppure il valore del rispetto del cibo.
Il secondo aspetto è relativo a quanto già accennato nel primo paragrafo di questo lavoro sulla relazione tra inclusione sociale e spreco alimentare. Più sono elevate le risorse economiche, sociali e culturali, più è intensa la vita sociale e più sono frequenti le attività del tempo libero, più aumenta lo spreco. Si è già detto che, in questo caso, lo spreco rappresenta una ricaduta pressochè necessaria della riduzione del lavoro di consumo a favore di altre attività espressive, ludiche o culturali che vengono scelte da ampie quote della popolazione, a meno che non vi siano forti valori orientati all’etica ed alla sostenibilità che determinino una revisione della gerarchia personale di valori.
Infine il terzo aspetto è quello della distribuzione del peso del lavoro di consumo in base al genere.
Una indagine ISTAT del 2012 sull’uso del tempo ed i ruoli di genere mostra come gli ambiti di lavoro domestico in cui si possono collocare i comportamenti virtuosi atti a ridurre lo spreco domestico siano ancora largamente femminili e come i ruoli femminili si riproducano. Nelle famiglie italiane le attività di cucina sono svolte nel 97% circa dei casi dalle donne e le attività di acquisto di beni e servizi per il 60% dei casi. La stessa indagine evidenzia che, all’interno delle famiglie, il contributo delle figlie alle attività domestiche è superiore a quello dei padri.
La riduzione dello spreco domestico passa dunque, oggi, prevalentemente attraverso le donne e le donne stesse appaiono consapevoli di essere le attrici di un processo di empowerment in quanto consumatrici, come risulta da una recente indagine CERMES-Bocconi dal titolo “Donne che combattono la crisi”. In questa indagine emergono due questioni rilevanti per lo spreco domestico: la prima è quella della consapevolezza da parte femminile del possesso di “una marcia in più” per affrontare la crisi basandosi sui saperi e sulle esperienze di ruolo, e la seconda è quella di una richiesta di alleggerire e semplificare la vita quotidiana. Queste due questioni configurano una ambivalenza tra fiducia in se stesse e nelle proprie capacità e stress da carico di lavoro domestico e responsabilità. Certamente le donne paiono disposte ad assumersi più responsabilità in tempo di crisi in termini di lavoro domestico e di consumo ma altrettanto certamente il peso delle attività femminili deve essere ridotto per frenare l’emarginazione delle donne stesse.